di Cristiana Filipponi
L’essere umano è in continua trasformazione e acquisisce la consapevolezza del proprio essere attraverso un lungo cammino ma ciò presuppone una costante riflessione su di sé mediata da uno sguardo attento che ponga distanza tra le proprie idee, i propri preconcetti, le proprie credenze e la vita che accade perché emerga la veridicità della propria realtà e di quella in cui siamo immersi. Che si abbia un credo confessionale o meno, parafrasando Feuerbach, noi siamo quello che pensiamo, i nostri pensieri plasmano la nostra vita e ciò che pensiamo la determina. E spesso i nostri pensieri sono confusi, intrecciati alle nostre emozioni (talvolta molto forti, rabbia, paura, gioia, ecc.), anch’esse aggrovigliate e che rischiano di intrappolarci o di fagocitarci.
La parola credere proviene dal latino e sta a significare “prestare fede”, “affidare”. In tale accezione il termine indica un far proprio qualcosa di cui non si è fatta ancora esperienza, e spesso continuare a “credere” in qualcosa oltremodo porta a non fare MAI esperienza diretta ed effettiva di quel qualcosa. Serve – forse! – in certi momenti di passaggio, necessari, che devono – o dovrebbero – essere puntualmente maturati, trasformati, portati ad esperienza. Anche l’esperienza effettiva e diretta del numinoso, del sacro, del senso dello spirituale presente in ogni uomo e in ogni donna, sono assolutamente primari, vitali, e fermarsi semplicemente a “crederci”, in tale accezione, è come rimanere sempre in un grembo materno, protetti, custoditi, non esposti all’esperienza reale e forte di queste realtà profonde: se “credo”, non ho bisogno di esperire, mi va bene “credere”, ciò mi basta, perché dovrei esperire ciò in cui già credo? Conosciamo decine e decine di persone nella nostra vita, ad esempio, che hanno sempre detto “io credo in Gesù Cristo”, “io credo nelle vie orientali”, “io credo nella psicologia” (come se fosse una filosofia o una religione), “io credo io credo io credo e blablablabla…”. Credono soltanto in nomi, in etichette vuote, nel nominalismo culturale: nei concetti vuoti che non riempiono il cuore tramite la viva esperienza. (Emanuele Casale – www.jungitalia.it/2016/07/20/credere-non-serve-preclude-lesperienza/)
Ogni credenza religiosa risponde quindi ad un bisogno tutto umano di trovare un senso rassicurante a quanto non si comprende, al bisogno di rapporto con l'”invisibile”, cioè quell’oggetto culturale attivo che nonostante l’apparente immaterialità, permette di garantire la tenuta di senso in un mondo storico e materiale sempre in divenire, per lo più in maniera caotica. Occorre però fare attenzione perché, a seconda che le credenze religiose vengano usate al servizio o in sostituzione dello sviluppo di una personalità matura, se da un lato il credere può permettere una crescita psicologica e spirituale che ha come senso la fioritura di vita individuale e colletiva, dall’altro potrebbe favorire la rimozione di disagi e di fenomeni psicologici irrisolti, fino a sfociare in forme acute di intransigenza e di fanatismo religioso.
“Le credenze uccidono; le credenze guariscono. Ciò che una persona crede all’interno di una società gioca un ruolo significativo tanto nel produrre malattia quanto come rimedio. Nelle diverse società queste categorizzazioni, credenze e aspettative sono culturalmente organizzate, a diversi livelli, in sistemi etnomedici. La portata di queste credenze come causa di malattie e come cura è la stessa dei microorganismi e dei farmaci: date determinate condizioni dell’organismo ospite e dell’ambiente, patologia o guarigione dipendono in modo consistente dalla credenza”.
Stefania Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione. Derive e Approdi, 2020