LE STELLE SPLENDONO SOLO NELLA NOTTE

di Cristiana Filipponi

La tradizione giudaico-cristiana, espressa nel simbolo natalizio che è il presepe, questo ci ricorda. Le uniche narrazioni della nascita del bambino che troviamo nelle scritture, quella di Matteo e quella di Luca, ci dicono il luogo, Betlemme, ma non specificano in quale momento del giorno sia avvenuto l’evento. Eppure per dare consistenza alle suggestioni del nostro immaginario personale e collettivo, dietro la capanna dei nostri presepi casalinghi lo sfondo è sempre il blu notte puntegggiato di stelle, dentro la grotta di carta stropicciata o dentro la capanna di corteccia c’è sempre almeno una delle luci ne che formano la collana e sopra non manca mai la stella cometa in attesa dei re magi.

Le stelle splendono solo nella notte. E di notti ne passiamo e ne abbiamo passate molte, sicuramente tutte quelle soggettive, lutti, perdite di persone amate, fine delle relazioni, diminuzione o perdita del lavoro, deficit economici, sconfitte personali, che sono la cifra del nostro essere, della nostra fragilità, del nostro limite. Ma poi, soprattutto in questi due anni, a rincarare la dose, ci sono state quelle collettive, la pandemia prima, e poi la guerra e gli episodi sismici e le alluvioni. E alla fine forse è lecito desiderare una tregua, un po’ di luce nella notte.

Desiderare. E parliamo ancora di stelle. L’etimologia del verbo è latina: de-che in latino ha sempre un’accezione negativa e il termine sidus, letteralmente, stella. Desiderare significa, quindi, letteralmente, “mancanza di stelle”, nel senso di “avvertire la mancanza delle stelle” (da Etimo Italiano) e il più delle volte compagna del desiderio è la nostalgia. Nostalgia di un mondo che non è più quello nel quale abbiamo abitato con le nostre certezze, i nostri punti di riferimento, nostalgia di una parvenza di pace nel mondo in cui ci eravamo accomodati forse perchè i rumori di guerra che non hanno mai smesso di farci da sottofondo erano ancora troppo lontani, nostalgia di una giustizia e di un’etica che ci riporti l’attenzione e la consapevolezza che nessuno si salva da solo.



Quando guardiamo il cielo stellato sopra le nostre teste, la luce che osserviamo sempre con emozione non emana da una stella ‘viva’, piuttosto arriva a noi con molti anni di ritardo, magari milioni, da una stella già morta: luce come presenza fatta di assenza.



Che siano le stelle disegnate sul cielo del presepe, le luci nella capanna o addirittura l’emozionante cielo stellato artificiale che in questo periodo natalizio si apre sopra di noi se passeggiamo per il centro della nostra città, ogni luce ci ispiri, come scrive Recalcati, la “nostalgia-gratitudine: quello che è passato non è più tra noi ma, anziché diventare oggetto di un rimpianto regressivo, risplende nella sua assenza raggiungendoci come una visitazione inattesa […] Al centro non c’è semplicemente il rimpianto inesauribile rivolto al passato – idealizzazione, conservazione, venerazione – perché la nostalgia – gratitudine esclude ogni possibile ritorno: la stella morta non può essere recuperata, non può essere restituita alla vita, la perdita è senza possibilità alcuna di rimedio. Ma mentre il nostalgico che vive di rimpianti è colui che resta aspirato dal passato, spogliato dell’avvenire, situando in ciò che è già stato la sua sola salvezza possibile, la seconda forma della nostalgia rende la luce delle stelle morte ogni volta nuova. L’assenza non è solo il luogo insensato della morte, ma la matrice di una vita ancora sconosciuta. In questo senso la nostalgia diviene gratitudine nei confronti di una luce che, pur provenendo dal passato, irradia in modo sorprendente il nostro avvenire”.

L’augurio, allora, per questo Natale sia quello di fare nostra la responsabilità di ritrovare le stelle, contemplando la notte, tutte le notti, le perdite, i fallimenti, le fragilità, i limiti della nostra condizione e al contempo scorgerne tutte le possibili luci, anche quelle più fioche.



…si tratta solo di un modo umano di abitare il mondo […] Troppo male è stato compiuto, ma non è irreversibile. Non credo all’irreversibile. Rimango molto fiducioso e lo sarò sempre, l’umano nel profondo è invincibile, incancellabile. Torneremo alle cose vive e vere. […] il mondo è pieno di visioni che attendono degli occhi. Le presenze ci sono, ma ciò che manca sono i nostri occhi”. ( Christian Bobin, Abitare poeticamente il mondo)

articolo per www.qdmnotizie.it

foto: Francesca Paolucci