FIORI DI FUMO

 

“La mia bocca dovrebbe essere sigillata.
Oh, il mio cuore, lo sapete, è la sorgente”

 

Herat, la città dei poeti. Afghanistan.
Nadia Anjuman Herawi nasce nel 1980 nella città di Herat, nel nord-ovest dell’Afghanistan e vive nel pieno degli anni del regime talebano. É adolescente e ama la letteratura e la poesia.

“Da quando ho memoria di me, so di aver amato la poesia”

Poche attività erano considerate lecite per le donne afgane alle quali era stata vietata qualsiasi forma di istruzione pubblica o privata. Con il pretesto di imparare a cucire, Nadia insieme ad altre donne locali, si riunisce in un circolo educativo sotterraneo chiamato Golden Needle Sewing School, tre volte a settimana per confrontarsi, scrivere e leggere testi proibiti, guidate e sostenute da alcuni professori della Herat University. La sospensione delle grida dei bambini che giocavano intorno al palazzo erano l’avvertimento che sarebbe arrivato un controllo. Allora libri e penne venivano in fretta sostituiti da ago e filo.

 

Nonostante tutto Nadia Anjuman ha coltivato tenacemente il sogno della scrittura e, quando il governo talebano cade, è finalmente libera di proseguire gli studi e laurearsi alla facoltà di lettere di Herat. Ancona giovanissima pubblica due raccolte: “Fiori di fumo” e “Un fiore rosso scuro”. In italiano le sue poesie sono state tradotte da Cristina Contilli e Ines Scarpolo, edite nel volume Elegia per Nadia Anjuman (Edizioni Carte e Penna, 2006).

Rivendica i suoi diritti, Nadia. Denuncia la “forzata solitudine”, la violenza sociale e domestica di un marito padrone. Attraverso la poesia, Nadia racconta la sofferenza delle donne afgane, urla il suo dissenso ed il suo disagio di donna condannata a morte.

“Non c’è nessuna differenza fra cantare e non cantare.
Perché dovrei parlare di dolcezza’
Quando sento l’amarezza.
L’oppressore si diletta.
Ha battuto la mia bocca.
Non ho un compagno nella vita.
Per chi posso essere dolce?”

Una lettura in pubblico dei suoi versi, fu probabilmente il pretesto per un litigio tra Nadia e il marito, Farid Ahmad Majid Neia, che la uccide letteralmente di botte. Era il 4 novembre 2005 e Nadia non aveva ancora compiuto venticinque anni e lasciava orfana una figlia di sei mesi.  Nessuna autopsia venne eseguita per espresso divieto del marito e della sua famiglia. L’omicidio della poetessa Nadia Anjuman fu archiviato dalle autorità come suicidio.

Il movente di questo brutale assassinio: essere donna.   

Una donna, e per di più, amante della poesia.

Il diritto di urlare

Non ho voglia di aprire la bocca
di che cosa devo parlare?
che voglia o no, sono un’emarginata
come posso parlare del miele
se porto il veleno in gola?
cosa devo piangere, cosa ridere,
cosa morire, cosa vivere?
io, in un angolo della prigione
lutto e rimpianto
io, nata invano
con tutto l’amore in bocca.
Lo so, mio cuore,
c’e stata la primavera e tempi di gioia
con le ali spezzate non posso volare
da tempo sto in silenzio,
ma le canzoni non ho dimenticato
anche se il cuore
non può che parlare del lutto
nella speranza
di spezzare la gabbia, un giorno
libera da umiliazioni ed ebbra di canti
non sono il fragile pioppo
che trema nell’aria
sono una figlia afgana,
con il diritto di urlare.

Nadia è una donna che ha pagato a caro prezzo la sua incrollabile fiducia nella parola. La sua è la voce di tante donne note e sconosciute, usate, abusate, umiliate, uccise e suicide.

“E volerò via dalla solitudine
E canterò con la mia malinconia.
Io non sono come un debole pioppo
che si piega al vento.
Io sono una donna afgana,
e questo è il mio lamento”.

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