LA FIGLIA OSCURA – TENERE INSIEME LA MADRE E LA DONNA
Tre canditature agli Oscar 2022, due al Golden Globe dello stesso anno e il Premio Osella per la miglior sceneggiatura al Festival di Venezia 2021, sono solamente alcuni degli importanti riconoscimenti al film diretto da Maggie Gyllenhaal tratto dal romanzo omonimo di Elena Ferrante
Leda Caruso è una docente universitaria americana di letteratura italiana, in vacanza presso una località di mare vicino a Corinto. Sulla spiaggia dove si reca ogni giorno arriva come un uragano una numerosa e rumorosa famiglia di Queens. Dopo la reazione di fastidio iniziale, Leda comincia ad osservare con interesse Nina, la giovane madre, e il rapporto fra Nina e la sua bambina riporta alla memoria della docente la propria relazione con le due figlie, ormai ventenni, quando erano ancora piccole. Una relazione complessa e per certi versi conflittuale che è venuta inevitabilmente a cozzare con il legittimo desiderio di Leda, brillante linguista, di avere una carriera nel mondo dell’accademia.
“Sono una madre snaturata”, dirà Leda, e questa confessione, pronunciata ad alta voce sul grande schermo, ha un effetto dirompente.
Il film esplora le contraddizioni della maternità come ruolo della donna costruito intorno alla prole, nel quale la madre è un oggetto a servizio del soggetto, (il figlio/a), e l’affermazione individuale di un’intellettuale e di un’artista, cui l’espressione di sé richiede quella concentrazione che un figlio piccolo inevitabilmente toglie.
Laura Pigozzi, psicoanalista, scrittrice e insegnante di canto, che dedica particolare attenzione alle nuove forme dei legami familiari, al femminile, alla questione della voce e del fare arte, sul suo blog, a proposito del film, scrive: “ Qualcuno ha voluto liquidare le problematiche sollevate dal film bollando la madre di narcisismo. A me non pare affatto una narcisista. Per il fatto che, ad esempio, è stupita quando un ricercatore in vista elogia e cita in pubblico il suo lavoro. Accetta le normali umiliazioni accademiche del suo professore-capo. Non si bea dell’adorazione del suo compagno che gli si butta in ginocchio per farla restare, tutt’altro. È solo una donna che vuole fare il suo lavoro di studiosa di letterature comparate e il padre delle bimbe latita. Una storia più che comune. Le madri narcisiste, piuttosto, sono quelle che si incollano al ruolo riconosciuto di madre, traendone approvazione sociale e adorazione da parte dei figli. Quella del film, al contrario, cerca – con mille difficoltà – di tenere insieme alla madre le sue legittime aspirazioni di donna e studiosa. Per un po’ non ci riuscirà. Ma il finale dà speranza”.
MOMMY – OVVERO QUANDO IL PLUSMATERNO UCCIDE
Premiato dalla Giuria al Festival del Cinema di Cannes nel 2014, il film del regista canadese Xavier Dolan (che nonostante la sua giovane età ha già all’attivo molte pellicole e inanellato candidature a premi prestigiosi),
Il film racconta proprio ciò che accade in una situazione di plusmaterno quando non è stata posta in atto la separazione. La coppia simbiotica madre-figlio crea una relazione malata di dominio reciproco in cui non c’è posto per altri, non esiste nulla fuori di loro. Una stretta claustrofobica, una chiusura malsana e soffocante che esclude il mondo e non permette al ragazzo la propria identificazione. Diane, la madre, che si fa chiamare Die (to die = morire) non l’ha mai accolto per quello che era, gli ha tolto la sua soggettività, lo ha considerato un prolungamento di sé, ha privato di senso la sua vita, non gli ha trasmesso il diritto di esistere. Steve ha invece offerto alla madre tutta la sua esistenza. La mancata separazione madre-figlio li renderà folli entrambi. Scrive ancora Laura Pigozzi a questo proposito: “Ricordiamo che l’onere della separazione spetta alla madre. Se la prima simbiosi madre-figlio dà una struttura, è solo perché ad essa segue la separazione che unicamente la madre può fare. E ha il dovere di fare”.
In questo mese iniziato proponendoci di festeggiare il materno, e quindi del femminile, due film ci invitano a riflettere, ad allontanarci dagli stereotipi propri della parola ‘mamma’, a chiederci cosa significa essere madri e sapere che anche quell’identità così viscerale non esaurisce la propria persona. Probabilmente ogni donna avrà una sua risposta, e forse la deve cercare. Perché la donna non è solo madre, o non lo è primariamente. Anch’essa di fatto lo diventa, e può diventarlo secondo esperienze esistenziali molto diverse. (Claudia Ciotti).